Lavorare insieme

Una necessità

Dagli atti di “strada facendo” (www.gruppoabele.it – www.libera.it).

Libera di don Ciotti è tra gli animatori di “strada facendo”

Oggi lavorare insieme non è solo lavorare in équipe, ma lavorare tra équipe, unire le forze. Noi sappiamo che lavorare insieme è la storia ed è la vita di molte persone che sono qui, e alcune cose le abbiamo imparate.

La prima è la pazienza dei costruttori, perché esiste anche un’adolescenza delle organizzazioni, così come esiste l’autoreferenzialità adolescenziale di molti portavoce. Abbiamo imparato ad apprendere dall’errore, a non ripeterlo, e quindi a rifletterci. Abbiamo imparato, qualcuno ha detto, a saper ascoltare l’altro secondo i suoi bisogni e non secondo le nostre competenze, che già ci chiudono l’ascolto. Abbiamo imparato a vedere nell’altro una risorsa.

Qualcuno propone il capovolgimento in positivo di nuovi precetti: fai all’altro quello che vorresti fosse fatto a te.

Lavorare insieme, tutti l’hanno ribadito, è conveniente, e cito un’esperienza per tutti, quella sarda dell’Abc (Associazione bambini cerebrolesi della Sardegna), un’esperienza di buona prassi. L’obiettivo era rendere esigibile il diritto all’inclusione sociale e ai progetti personalizzati per i disabili gravi. Quindi, partendo dalla 162/98, l’incremento del fondo chiedeva che non arrivassero alle famiglie soldi ma progetti mirati alle necessità di quella persona e di quella famiglia. Tutto è cominciato dalle famiglie che nel 2000 hanno trascorso alcune giornate nel Consiglio regionale. Nel 2005 c’è questo straordinario fondo di 42.500.000 euro stanziato ai Comuni per la disabilità. La Regione Piemonte, anche se ha una associazione molto forte, il Cssa, di cui siamo grandi amici, aveva stanziato solo 5.000.000 di euro, la regione Sicilia anche. I fondi della Regione Sardegna hanno voluto dire 9.250 progetti finanziati e la creazione connessa di 4.000 posti di lavoro part-time nel Terzo settore.

Si è lavorato insieme: famiglie, Terzo settore e pubblica amministrazione, che ha fatto da regista di quest’operazione, con benefici per i singoli e le loro famiglie, per il mutamento delle culture del territorio, per l’inclusione invece dell’esclusione, praticando il principio della non discriminazione e delle pari opportunità.

Quindi le integrazioni sono possibili: ci sono state molte esperienze, molte delle quali sono state illustrate. Dobbiamo però partire dal principio che fare integrazione vuol dire osservare insieme i bisogni del territorio. Dobbiamo lavorare insieme fin da subito. I Piani di zona devono dotarsi di osservatori territoriali, che forniscano i dati e che siano anche composti da chi opera quotidianamente nel settore per costruire – ad esempio nel caso delle dipendenze – un indice di rischio sociale e di consumo territoriale, che vuol dire analisi dei dati sugli incidenti stradali sul territorio, sulla dispersione scolastica sul quel territorio, sulla microcriminalità e soprattutto valutazione delle attività di prevenzione selettiva che sul quel territorio sono stati organizzati.

Se iniziamo insieme a fornire dati, a valutare quel percorso, lavorare insieme sarà più facile. L’interlocutore è la comunità locale, che rappresenta l’interlocutore privilegiato della definizione degli obiettivi del proprio territorio. Bisogna strutturare interventi, uscire dal paradigma della precarietà che investe tutte le sfere della società, le istituzioni stesse, le organizzazioni, le attività.

Non c’è solo il tema delle risorse. C’è la ridefinizione delle nostre mission, c’è la democratizzazione dei luoghi di decisione (se raccogliamo insieme dati poi però bisogna anche decidere insieme), ci deve essere una maggiore attenzione alla coincidenza degli ambiti territoriali di lavoro (non è possibile che i Centri per l’impiego abbiano un riferimento territoriale, le Asl un altro e i Consorzi socio-assistenziali un altro ancora) così come è necessario modificare alcuni dispositivi legislativi. Sono tutte piccole cose ma necessarie.

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