L’isola che non c’è

Un lavoro da tempo studiato che riteniamo opportuno pubblicare proprio ora che la ricostruzione nell’aquilano, dopo il forte sisma che ha colpito la zona, aprirà sicuramente importanti sbocchi per le infiltrazioni mafiose negli appalti. La criminalità organizzata, da anni ormai attiva sia nella Marsica che sulle coste abruzzesi,  è sicuramente interessata a non perdere una fonte sicura di guadagno. Il dossier di Libera Informazione descrive una infiltrazione silenziosa ma profonda, in un tessuto divenuto crocevia del riciclaggio e del reinvestimento dei proventi illeciti, ed è un monito per non sottovalutare la pervasività delle mafie, soprattutto in questo lacerante frangente storico.


Quella dell’Abruzzo criminale è la storia di una negazione. È La storia di un’isola felice che isola felice non è, da tempo. O forse lo è, ma solo per le mafie. Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra, sacra corona unita, ma anche le organizzazioni straniere (quelle albanese e cinese in testa) si muovono tra i monti della Marsica e sulla costa da diversi anni. Fanno affari, si infiltrano nell’economia, mettono le mani sugli appalti, costruiscono basi operative per latitanti e per i traffici di droga. Capitali da riciclare, investiti in aziende e immobili (sono ormai 25 i beni confiscati alle mafie nella regione, in ben 15 comuni e in tutte e quattro le province). E ancora la tratta delle bianche, la prostituzione di strada e quella nei locali della costa, l’usura e le estorsioni. L’Abruzzo è la regione dei parchi, è il cuore verde d’Europa, ma è anche terra di ecomafie, che sversano rifiuti tossici nelle lande inabitate della regione. Una regione malata di corruzione: dalla Tangentoli degli anni 90 agli scandali recenti, dai provvedimenti giudiziari che hanno colpito la giunta regionale nel 1992 all’arresto del governatore dell’Abruzzo Ottaviano Del Turco.

Infiltrazione e sottovalutazione
Quella dell’Abruzzo criminale è una storia di sottovalutazioni. Di continue e insistenti dichiarazioni di estraneità, anche di fronte all’evidenza dei fatti. Le mafie in Abruzzo non ci sono, e se ci sono vengono dall’esterno. Criminali meridionali oppure stranieri. Criminali di passaggio. Una visione intanto riduttiva: le famiglie meridionali emigrate abitano ormai da decenni nella regione del Gran Sasso, africani e slavi hanno messo ormai radici, così come le frange criminali al loro seguito. Non passano affatto, restano. Ed è una visione pseudo-antropologica al confine con il razzismo culturale: come se mafia e criminalità fossero insite nel dna di alcuni popoli, di alcune razze o di certi tipi di italiani. Una visione che impregna le dichiarazioni di politici, amministratori e troppo spesso operatori della giustizia. Ogni banda sgominata è una malattia debellata, in una società sana. Ogni inchiesta è la reazione di un corpo sano e non il sintomo di una patologia. Eppure l’omertà, a detta di chi opera sul campo, è regola anche tra gli abruzzesi.

Una visione che è un esempio classico di rimozione: la commissione parlamentare antimafia visitò nel ’93 l’isola felice – all’indomani della bufera giudiziaria del ’92 (nove arrestati su undici componenti della giunta regionale) e di una serie impressionante di inchieste su politica-mafia-massoneria – lasciando ai posteri un dossier al vetriolo. È la relazione Smuraglia, sintesi del viaggio nelle regioni a “non tradizionale insediamento mafioso”. Conclusioni: in Abruzzo, così come nel resto dell’Italia centrale e settentrionale, le cosche sono presenti, radicate, potenti e attivissime. Molto più sul versante economico che su quello del controllo del territorio. Ma non per questo meno pericolose. Già da allora, più di 15 anni fa, era chiaro che la partita contro le mafie si sarebbe combattuta sul fronte del riciclaggio. È tutto scritto: le isole felici non esistono. Lettera morta. Perché ancora oggi il discorso attorno alle presenze mafiose trova resistenze, negazioni, riduzionismi, spesso nascosti dietro la sacrosanta esigenza di non creare allarmismo e non cavalcare l’onda del sensazionalismo. Criminali d’altrove, si dice troppo spesso. Eppure la malavita abruzzese è ormai organicamente inserita in contesti mafiosi tradizionali (vedi estorsioni, gioco d’azzardo, prostituzione e droga tra Pescara, Teramo e Chieti). E soprattutto ci sono un certo ceto politico-amministrativo e una certa imprenditoria che flirta, a dir poco, con le mafie ad altissimi livelli. Non hanno la coppola e la lupara, non sparano, ma riciclano i milioni del narcotraffico, corrompono, pilotano gli appalti, truffano, devastano il territorio, inquinano l’economia, investono in immobili e capannoni, avviano società finanziarie. Giacca, cravatta e colletto sporco.

Ma non ci sono solo le mafie d’alto bordo. Le inchieste Histonium nel vastese, i dati sull’usura e sul racket ci parlano di una regione avviata da tempo verso una dimensione mafiosa classica, col controllo del territorio e il consenso della paura. L’Abruzzo non è di certo la Calabria o la Campania, non è la Sicilia, non è la Puglia (non ancora), ma non è nemmeno la Svizzera. Il 10% dei commercianti paga il pizzo, una percentuale da allarme arancione. E Pescara è la capitale dell’usura, prima città in Italia secondo tutti gli indicatori di rischio. Avviso ai naviganti: l’usura non è più, da decenni, roba da cravattari. Dietro lo strozzino ci sono le mafie. Sempre.

Un fenomeno di importazione
È innegabile che il fenomeno mafie in Abruzzo sia comunque un fenomeno d’importazione. Ad aprire le porte, però, è stata proprio la Giustizia, con un’infelice gestione dei soggiorni obbligati: decine di boss e affiliati meridionali inviati al confino sui monti e sulla costa. Una pratica dalle conseguenze nefaste in tutta l’Italia centro-settentrionale. Ecco che l’Abruzzo ha visto l’espandersi di cellule criminali, schegge dei clan pronte a trapiantare i traffici illeciti coltivati al Sud. Reti di fiancheggiatori che hanno favorito nel tempo la pratica del riciclaggio, degli investimenti legali di capitali mafiosi, ma anche l’organizzazione di basi per latitanti e scissionisti in fuga dalle guerre di mafia. Gli affari col tempo sono evoluti, spesso le diverse mafie hanno trovato l’accordo basato sul guadagno, nella loro isola abruzzese, felice e pacificata.

In un certo senso però le mafie ci sono sempre state: l’Abruzzo ha un fenomeno peculiare, la presenza atavica di famiglie rom (“nomadi stanziali” è la definizione ossimoro che si legge nelle relazioni ufficiali) dedite ad attività criminali. Hanno in mano la partita dell’usura e lo spaccio al dettaglio della droga. Famiglie come quella dei Di Rocco che siedono ormai al tavolo nazionale delle cosche, trattando a testa alta coi calabresi, i camorristi e i siciliani, ma anche con gli slavi.

La rotta balcanica, i porti dell’Adriatico, i clan albanesi in contatto con la cupola slava. Sono gli ingredienti che fanno dell’Abruzzo un crocevia dei grandi traffici di cocaina, ma anche di eroina. Il consumo di stupefacenti è elevatissimo (l’Abruzzo è tra le prime regioni per sequestri e denunce legati all’eroina), una piazza di spaccio tra le principali. Nell’ultimo decennio, diverse grandi inchieste hanno coinvolto i monti del Gran Sasso e la costa, operazioni che rimandano a traffici intercontinentali (con gli Usa, con la Colombia, con la Turchia e la Bulgaria, oltre che con i Balcani). E alle porte di Pescara è stata scoperta una delle più grandi raffinerie di polvere bianca presenti in Europa.

Mafie straniere, ecomafie, corruzione
Droga e prostituzione sono le attività principali delle mafie straniere in Abruzzo. Sono gli albanesi a gestire i grandi traffici (adesso con un preoccupante asse slavi-campani). E a promuovere la tratta e la prostituzione. In strada, ma anche nei locali notturni della costa. Una pratica redditizia, sfruttata in proprio anche dai rumeni e dai cinesi. Il pericolo giallo è la vera emergenza: nella regione è presente una delle comunità asiatiche più strutturate. Una presenza che si accompagna all’emergere di clan mafiosi agguerriti e misteriosi (vedi operazione Piramide a Pescara). E c’è il pericolo russo, quei grandi faccendieri che fanno affari come al monopoli.

L’isola verde è preda delle ecomafie. Tonnellate di rifiuti tossici scaricati abusivamente, discariche illegali, cave riempite di ogni cosa, un po’ ovunque. Caso eclatante è quello di Bussi sul Tirino, una delle discariche più grandi d’Europa. E poi c’è la mala amministrazione, i fiumi inquinati e i mari contaminati, il turismo che arranca, con sullo sfondo tanti, troppi casi di corruzione, di appalti sospetti.

Corruzione dilagante, endemica. Legami tra politica, amministrazione, mafie e massoneria. Intrecci perversi, trame occulte e intricate che spesso hanno l’Abruzzo come scenario. Dall’inchiestona sull’autoparco milanese di cosa nostra a Tangentopoli negli anni 90, dalle tangentine locali fino alle presunte tangenti che avrebbero intascato Del Turco e il sindaco di Pescara Luciano D’Alfonso.

Ma è appunto sul fronte del riciclaggio e degli appalti che si gioca la partita. Grandi capitali di provenienza sospetta, investimenti abnormi, commesse e gare con diverse ombre. Una storia ancora da raccontare quella della lavanderia Abruzzo. Una storia che di recente ha un primo punto fermo: il tesoro di Ciancimino, ex sindaco e boss di Palermo, sarebbe stato custodito e fatto fruttare proprio nella Marsica, attraverso società e prestanome. Una storia venuta a galla grazie all’impegno di Libera Marsica e alle inchieste puntuali di organi di informazione dal basso come Site.it e Primadanoi.it. Una storia ancora da raccontare, ma soprattutto da indagare.

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