Pasqua e carità

In uno degli ultimi libri che raccolgono le meditazioni dei corsi di esercizi spirituali ai sacerdoti del Card. Martini troviamo questa stimolante e provocatoria analisi: “Il nostro cristianesimo ha molto sviluppato, giustamente, il senso della carità, dell’amore ai più poveri, il senso della giustizia distributiva che dà a ciascuno il suo, e però ha dimenticato il nostro essere fatti non per la città terrena, ma per una città permanente. Ha dimenticato che noi guardiamo, come Mosè, verso l’invisibile e che questa è la nostra identità” (C. M. Martini, Il coraggio della passione, p. 37).
È dunque a partire da questa sottolineatura che vorrei proporre alcune riflessioni a mo’ di augurio di “buona Pasqua” a tutti i nostri operatori e volontari.

Il radicamento pasquale della nostra opera. Guai a noi se dovessimo dimenticare che tutto il cristianesimo è da pensarsi come una piramide rovesciata che poggia su un punto senza il quale tutto crollerebbe: la Pasqua di Gesù, la sua tomba lasciata vuota per sempre. Se dovessimo dimenticare che la missione di Gesù ha prodotto la morte della morte, dischiudendo all’uomo il destino inaudito di vedere trasfigurata la nostra stessa carne, la nostra umanità debole e fragile, … tutto il cristianesimo si ridurrebbe ad un umanesimo tanto affascinante quanto impossibile. L’uomo resterebbe inesorabilmente schiavo dei suoi limiti, della sua mortalità, del male. Il nostro impegno contro il male e le sue infinite forme finirebbe per essere una lotta romantica conto i mulini a vento; e le delusioni e le sconfitte e le mortificazioni che questa comporta ci esporrebbero alla tentazione di gettare la spugna: per quanto tempo si può stare in una trincea se diventa incerto il successo e se intuisci che forse nessuno verrà mai un giorno a darti il cambio? Non dimentichiamolo mai: il cristiano crede non solo ad una generica sopravvivenza oltre la morte, ma ad una resurrezione della carne che significa la valorizzazione di ogni aspetto che ha caratterizzato la nostra vita “quaggiù”: nessun amore, nessuna passione, nessuna lacrima, nessun sorriso, nessun sogno, nessuna delusione verranno perse nella vita da risorti che ci attende.

Lo sguardo verso il futuro e verso l’invisibile. “Fatti per una città permanente” scrive il Card. Martini evocando un passaggio della lettera agli Ebrei. A dire che la nostra azione ha bisogno di esprimersi in uno strabismo spirituale che, mentre con un occhio ci fa contemplare l’invisibile meta che ci attende, con l’altro ci chiede di progettarla, anticiparla, farla intuire nelle linee di una visibile città dell’uomo in cui l’uomo, ogni uomo, possa vedere riconosciuto il suo diritto a concorrere a pieno titolo alla gara per una vita piena. Uno strabismo che ci mostri pienamente solidali nella compagnia degli uomini, ma insieme portatori di un’ “altra” cittadinanza e per questo mai paghi, mai soddisfatti, mai arrivati.

Un paradiso anticipato. Camminiamo dunque verso la città invisibile, ma nel frattempo non stiamo con le mani in mano. Per questo non saremo mai capaci di tirarci indietro o di assumere un atteggiamento rassegnato o fatalista: la città invisibile un po’ dipende anche da noi. L’inno alla carità di 1 Corinti 13 – che abbiamo meditato nelle Giornate di Eremo di quest’anno pastorale – mette in relazione la carità con la fede e la speranza e, alla risposta “cosa rimarrà alla fine?”, Paolo risponde: il bene che avremo voluto e che continueremo a volere a Dio e agli altri. Questa è la grande notizia. In Paradiso la speranza sarà compiuta, la fede non avrà più motivo di esistere, la conoscenza sarà piena. Resterà solo quella carità che ci permette di anticipare il Paradiso già su questa terra. Questo è il nostro potere.

Don Roberto Davanzo

Fonte: Caritas Ambrosiana

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.