Capacchione: ”Al sud abbiamo la convenienza di denunciare, perché non ce la facciamo più!”

Al seminario per giornalisti la testimonianza di Rosaria Capacchione, cronista del Mattino, minacciata dai boss. ”Al nord non c’è voglia di sapere”. E sulla professione: ”Abolirei le scuole di giornalismo”
Rosaria Capacchione intervistata da Maria Nadotti


CAPODARCO DI FERMO – Una lezione di realismo, di pragmatismo, di… giornalismo. Così Rosaria Capacchione al seminario per giornalisti Redattore Sociale, intervistata, più spesso incalzata, da Maria Nadotti. Già, incalzata. Perché la Capacchione nei panni del personaggio proprio non vuole entrare. E pazienza se con i suoi articoli sul Mattino di Napoli ha fatto la “storia” della cronaca giudiziaria campana, tanto da finire del mirino dei boss ed essere costretta ad una vita “blindata” e “scortata”. Ecco, in pillole, il succo del suo intervento.

Giornalismo e nuove generazioni. “Scrivendo non si ha un riscontro immediato nei lettori – ha affermato -. Scrivere su un giornale non è come stare sul web. Io nella mia vita ho provato sempre a rettificare quando ho scritto qualcosa di non esatto. Ritengo che questo sia apprezzato. E se sbaglio, lo faccio in buona fede”. Un atteggiamento che rimanda a come la professione è vissuta oggi dalle nuove generazioni. “A fare giornalismo si impara quando ti strappano il pezzo scritto in faccia, quando ti dicono di rifarlo da capo, quando capisci che non sei a Mumbay ma a Capapesenna – ha affermato – . A quel punto alcuni lasciano, altri continuano. E’ una dura selezione sul campo. Oggi invece i ragazzi sanno tutto di teoria, ma non sanno niente della pratica e non vogliono nemmeno farla. Provate a chiamarli alle 8 di mattina per fare domande su una cosa che stanno seguendo! Di fatto la curiosità personale non c’è più. Per questo dico che abolirei le scuole di giornalismo, inserendo invece un sistema di borse di studio. Va fatto un praticantato vero, sul campo. Perché non è obbligatorio fare il giornalista. E siamo noi giornalisti che stiamo facendo squalificare la professione”.

Fonti, relazioni, qualità. “Quando ho cominciato a fare la cronaca nera – ha affermato la Capacchione – non l’avevo mai fatta prima. Nel chiedere e controllare acquisisci col tempo una serie di informazioni aggiuntive. Qualità? Non saprei, io credo di fare la giornalista. Una giornalista di provincia. E in provincia tutti devono fare tutto. Non posso fare la cronaca nera e non sapere chi è il presidente o l’allenatore della squadra di calcio. E una volta che sei sopravvissuto al periodo di prova si può fare tutto. Quanto al mio campo, dico che i processi di camorra sono francamente noiosi. Nello specifico, dico che sono abituata a leggere attentamente le motivazioni delle sentenze. Vado a cercare l’elemento nuovo, traducibile per la gente comune; spiego cosa è successo. Poi cerco di mettere in parallelo le sentenze per capire nessi e avere un quadro d’insieme. Scrivo, verifico, chiamo l’avvocato o il magistrato per sapere se la mia interpretazione è esatta”.

“Tratto male i colleghi che mi chiamano per sapere cosa ne penso su una questione piuttosto che su un’altra. Rispondo: ‘chiedi al magistrato’. Oppure mi arrabbio se mi chiamano nel tardo pomeriggio, magari nell’ora di chiusura del giornale. Il fatto è che non sanno che significa fare un giornale!”.

Giornalismo e questione meridionale. Secondo la Nadotti, “ci sono tanti modi di mettere a tacere un buon giornalista. Uno di questi è quello di renderlo molto famoso”.

“Forse hai ragione – ha risposto la Capacchione –. In generale non mi piace la visibilità. A casa non ho il televisore da 15 anni. Non mi piace la funzione dell’opinionista. In pratica: o sei un esperto, oppure cosa me ne frega a me della tua opinione? Mi piace parlare con i colleghi della carta stampata, la radio mi rilassa. Con la telecamera invece non hai il tempo di farti un’opinione, di riflettere. Ma io ho un unico desiderio: tornare al mio anonimato”.

Saviano, Capacchione, ecc… La camorra è combattuta soprattutto al sud. “Da anni in Italia il buon giornalismo viene dal sud Italia – ha ammesso la Capacchione -. Molto meno quello che arriva dal nord-est. Dal sud invece sono arrivati giornalisti che hanno ‘spiegato’ il nord. Perché nessuno raccoglie la staffetta? Perché non volete! Nel 1991, per esempio, ho cominciato a occuparmi di Modena. Avevo visto che quelli che dalle mie parti venivano uccisi il sabato e la domenica, erano persone che rientravano da Reggio Emilia e Modena. Allora ho chiesto di andare in quei posti e notai, camminando, i cartelli appesi nei cantieri che mi riportavano proprio alla mia zona. La stessa cosa ho fatto in Toscana. C’era questa situazione e sono andata a verificare. Ma quando sono stata a Modena o in Toscana non ho visto i colleghi locali fare lo stesso. La realtà è che noi al sud siamo appestati da persone che fanno affari in altre zone. Se arriva una persona che compra un albergo a Montecatini e paga in contanti, l’acquirente dovrebbe chiedersi perché questa persone gira con 4 o 5 milioni di euro in una valigia! In realtà non importa a nessuno se quella persona ha un traffico di stupefacenti o altro. Allo stesso modo al sud non abbiamo rifiuti industriali, ma ricicliamo quelli degli altri. Nel ricco e cinico nord ci si confronta con ricchi e cinici imprenditori che vogliono fare affari e non gliene importa niente di quello che c’è dietro. Il non voler sapere conviene! Noi invece abbiamo la convenienza perché non ce la facciamo più! In altre parti d’Italia non è così. E allora il segreto sta nel fatto che fare la lotta alle mafie deve convenire…”.

La forza della verità. Cosa dire, come affermava Kapuscinsky, della necessità di un “giornalismo intenzionale”? Nel senso di un professionista dell’informazione che incide sulla realtà, che si dà uno scopo e cerca di produrre una verità. Qui la Capacchione è sembrata più critica: “Quando faccio il mio lavoro cerco una verità rispetto a quella specifica storia. La verità di una storia credo che alla fine sia più forte delle mistificazioni. Ed è quella verità che può cambiare le cose. La forza del cambiamento l’attribuisco alla verità e non al giornalista. E non devo spacciare la mia opinione per verità. A volte poi c’è il rischio di essere strumentalizzati. Quando ho avuto per le mani qualcosa di delicato, mi sono chiesta se avevo capito quello per cui ero stata utilizzata, perché avevo avuto accesso a certi documenti. E ho utilizzato la situazione a mio vantaggio. In generale non si fa uno scoop perché si è bravi, ma perché qualcuno vuole che tu lo faccia. Ma i giornalisti non possono fare i postini di qualcuno. Nessun giornalista è stato mai arrestato perché ha forzato la cassaforte di una Procura…”.

Poi la chiusura: “Ho avuto minacce serie, ma ho messo in conto che certe cose possano accadere. Non ho responsabilità verso terzi. Io ho il dovere di informare. Non vado a rappresentare nessuno, non faccio il politico. Ognuno si prende le sue responsabilità: la politica, l’impresa, la Chiesa. Io racconto, questo è il mio compito”. (da.iac)

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