Ho visto donne con il burqa

Cronaca dall’Afghanistan

Articolo di Tana De Zulueta su “L’Unità”.
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Foto tratta dal sito www.perlapace.it

Zahir Shah era ancora re, anche se per poco, i talebani non avevano ancora conquistato il paese, e le donne potevano ancora lavorare. L’Afghanistan era, come oggi, un paese poverissimo, ma il regno di Zahir Shah, iniziato negli anni trenta, era stato una rara parentesi di relativa tranquillità per il suo paese. Il re si considerava un modernizzatore e incoraggiava l’educazione delle donne e la loro partecipazione alla vita pubblica. Le hostess della Ariana erano un simbolo di modernità, e ne erano orgogliose quando davano ordini ai passeggeri e le chiacchiere allegre nella zona cucina. 

Girando per le strade di Kabul le donne con il burqa erano quasi in minoranza. Le studentesse dell’università vestivano come noi e nell’ospedale donne medico ed infermiere giravano per i reparti senza velo. Mio padre, che lavorava in Afghanistan per le Nazioni Unite, occupandosi di salute pubblica  e coordinando la campagna contro la malaria, aveva come interfaccia nel ministero della Sanità una funzionaria donna.

Sono tornata in Afghanistan un anno fa, e ho visto un altro mondo. Non solo per i segni evidenti di più di trent’anni di guerra, con la città di Kabul quadruplicata nella sua estensione dall’afflusso degli sfollati, circondata da un distesa infinita di baracche di fango, con le carcasse dei carri armati lungo la strada dell’aeroporto. Ma c’era qualcos’altro. Non ho colto subito la differenza, mi sembrava, però, che mancasse qualcosa.

Poi ho realizzato: erano sparite le donne. Oggi anche le più emancipate non escono di casa senza un pezzo di velo in testa, compreso il personale femminile delle organizzazioni internationali. Le altre, quando escono, sono state inghiottite dall’universale burqa celeste. Un dato di fatto che la cacciata dei talebani dalle città non ha sostanzialmente modificato. Il boom edilizio del dopoguerra ha sventrato la città vecchia e sono spuntati interi quartieri per i nuovi ricchi, ma l’ostentazione femminile, se c’è, si svolge a porte chiuse.

Passando lungo la strada che portava al palazzo del re, ora il palazzo presidenziale, ho finalmente riconosciuto un pezzo della città com’era. Facevo parte, in questa ultima visita, di una delegazione parlamentare delle commissioni Difesa, e la prima tappa del nostro viaggio era un incontro con il Presidente Karzai. Il vecchio re, molto malato, ci fu detto, aveva ceduto il suo palazzo, e viveva in una vecchia foresteria nel giardino. Ferma sul marciapiede, ho riconosciuto il posto, poco frequentato, ma non particolarmente pericoloso, dove passeggiavo con il nostro cane. Ora la strada è chiusa al traffico anche pedonale per timore di attentati.

Più che trentacinque anni, sembrava essere passato un secolo, anche se l’orologio, da un certo punto di vista- quello delle donne—più che in avanti sembra essere tornato indietro. Perché le donne, il loro corpo, la loro pretesa di autonomia, sono ridiventate il fronte dell’ultima guerra in atto per la conquista dell’Afghanistan.Nel 1972, studentessa universitaria, giravo da sola, e indisturbata, per le strade di Kandahar, mentre mio padre sbrigava i suoi affari nell’ospedale della città. Oggi sarebbe impensabile.

Malalai Kakar,era nata a Kandahar, la stessa città dove era nato il movimento dei talebani, il movimento degli “studenti” fondamentalisti. Veniva, però, da una famiglia che aveva sposato un’altra idea di progresso. Il padre, ufficiale di polizia, la spinse ad arruolarsi nella polizia nel 1982, come i suoi fratelli, “senza differenza”, disse lei. Aveva dato a sua figlia il nome di Malalai, eroina della resistenza afgana contro i colonialisti inglesi. Non si trova traccia del nome di Malalai nelle cronache britanniche della battaglia di Maiwand, storica sconfitta degli inglesi per mano dell’Afghano Ayub Khan, ma gli storici locali narrano che ad un certo momento, quando le linee afgane stavano per sfaldarsi, si alzò una ragazza,impugnando come bandiera il suo velo, e incitando, cantando,i suoi compagni a combattere. Malalai fu colpita e uccisa da una pallottola inglese, ma le truppe di Ayub Khan si gettarono contro gli inglesi con rinnovato furore. Fu un umiliazione cocente, immortalata dallo stesso kipling nella sua poesia That day. Pare che la tomba, vicina a Kandahar, dove Malalai l’eroina fu sepolta con tutti gli onori, esiste ancora.

Malalai Kakar era, anche lei, una combattente. Nelle interviste raccontava volentieri della sua partecipazione a scontri armati con i talebani. Credeva evidentemente nel suo compito, quello di proteggere le donne, e anche, forse, di risollevarle. Sue colleghe della squadra speciale che Malalai capeggiava hanno detto a una giornalista americana che si era avventurata fino al pericoloso posto di polizia dove lavoravano, che si loro si erano arruolate era per merito suo.

Un’ atra poliziotta di Kandahar fu uccisa a giugno di quest’anno, ma Malalai Kakar era un simbolo, anche internazionale. Il suo assassinio è stato rivendicato da un portavoce dei talebani all’agence France Presse:” Abbiamo centrato l’obiettivo”, ha detto. Ci sono molte Malalai in Afghanistan, e non solo perché è un nome popolare. Sono donne, ragazze e bambine forti e anche combattive, così, almeno, me lo ricordo.

Ragazze con lo sguardo simile alla celebre bambina di una copertina del National Geografic, che sembrava sfidare l’obiettivo del fotografo. Quella bambina fu ritrovata dallo stesso fotografo molti anni dopo, in un campo profughi in Pakistan, già madre e con il viso segnato dal tempo, ma con lo stesso sguardo scintillante. Un immagine che è quasi un simbolo di resistenza. Ma forse la più celebre di tutte, in Italia, è la parlamentare Malalai Joya, espulsa dal parlamento per avere sfidato i signori della guerra che ritiene colpevoli di crimini ed abusi. Ha lo stesso coraggio di Malalai Kakar, e come lei, è convinta di avere il sostegno di molti suoi concittadini, non solo, ma forse specialmente, donne e bambine.

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